Napoli, 17 novembre 2011 – decimo giorno di Festival

Diversamente Festival

La signora che guarda il cavallo di cartapesta alto tre metri, tutto azzurro, dalla testa smontabile e senza coda, piantato a gambe larghe su un carrello spinto da un infermiere dell’ospedale di Trieste, non scherza, fa sul serio, ci tira la giacca e dice: ”è il simbolo del calcio Napoli?”. Ci ha presi per tifosi, la signora, a Napoli l’azzurro non è un colore come gli altri, e forse non sbaglia. Qui il tifo e i tamburi ci sono davvero, ma dietro a Marco Cavallo, il gigante muto che come il suo lontano parente troiano è servito per far cadere dei muri, ci sono uomini e donne dagli sguardi smarriti, portatori di disagi profondi, sostenuti dal braccio di qualche amico o parente, dagli assistenti che per loro sono diventati come fratelli e fanno il tifo per loro. Sono gli ospiti della case famiglia che nacquero in Italia quando Marco Cavallo, più giovane di 38 anni, fu partorito dalla fervida mente degli psichiatri del manicomio di Trieste come un simbolo di riscatto e di liberazione, per restituire alla gente che soffre di disagio psichico una vita che potesse dirsi normale almeno nelle forme della quotidianità, a volte anche nella abitudini di lavoro e di socialità.

E’ vero, il Napoli calcio sta attraversando un periodo felice della sua storia, ma la gente di Napoli non abbocca (“ccà nisciuno è fesso” avrebbe detto il Principe), ci guarda risalire la via Toledo e abbozza un sorriso smorzato, ogni tanto qualcuno ci ferma e dice “ ma chi siete? Che sta succedendo?”. In quest’Italia rassicurata da un incolore professore di economia che promette sfracelli, condotta sull’orlo del baratro da pluripregiudicati che sorridono beffardi mentre ballano sulla nave che affonda, la gente di strada non ride più di una processione di matti (sfido io!), pensa piuttosto che siamo tristi burloni, tutti andati col cervello e ci guarda con occhio benevolo, noi che seguiamo un cavallo senza coda, proprio perchè ormai “i pazzi stanno fuori e i sani dentro”.

“Dentro” “fuori”, categorie che definiscono la normalità in un mondo che non ha più regole sicure o punti di riferimento stabili. In barba a Basaglia, carceri e ospedali psichiatrici sono, oggi più di ieri, zone di confine tra la vita e la morte dove persone vive sono inghiottite e non ne vengono più fuori, come capì Franco Mastrogiovanni, morto in un ospedale della repubblica italiana dopo 4 giorni di contenzione al letto, un istante prima di entrare nel reparto TSO. Oggi, le parole che Franco affidò ad un amico prima del ricovero coatto, risuonano in un tribunale come accusa per medici e infermieri che lo lasciarono finire come un cristo in croce. Ma quanti ce ne sono stati di questi Franco e quanti ancora passeranno quella porta bianca di un lindo ospedale del nostro democratico Paese per non tornare più a casa?

Il dottor Basaglia è scomparso nel 1980 e da 31 anni ci interroghiamo sul fatto che la legge 180 che lui ispirò debba essere cambiata e realizzata nei suoi principi ispiratori, ma mente noi discutiamo quello che io vedo aumentare ogni giorno di più è uno scivolare lento e silenzioso verso forme di eliminazione dei più deboli, forme “pulite” di omicidio che ricordano le tecniche “banali” riservate dai nazisti ai rom, ai deformi, ai diversamente abili, come diremmo noi oggi, prima ancora che agli ebrei.

Stasera all’Istituto Colosimo ho visto sfilare molte di queste creature dallo sguardo smarrito, sotto braccio agli amici delle cooperative che li curano e li difendono perchè le loro vite sono ormai indissolubilmente connesse, li ho visti marciare dietro il cavallo di cartapesta azzurra e li ho visti seduti sbadigliare durante il dibattito, sbirciando il momento in cui si sarebbero aperte finalmente le porte della città. E noi con loro, 38 anni dopo, siamo ancora qui a sognare una città diversa dove prostitute, carcerati, poveri, emarginati, minoranze, insomma tutti i diversamente felici ed infelici della nostra comunità,  abbiano una vita più facile e umana. Siamo ancora innamorati della parola di quell’uomo di Trieste, ma solo per questo siamo dei sognatori?

Prima di rispondere, provate a fare una piccola riflessione da gente di strada.

Se ci sono migliaia di esseri umani che per un asino azzurro con una “N” sopra spendono milioni di euro e si azzuffano, parlano, commentano e sognano per 12 mesi all’anno e per tutta la vita, e hanno pure decine di canali e trasmissioni televisive che parlano di questa passione “sportiva” dalla mattina alla sera, mi spiegate perchè a noi non può essere concesso di passeggiare dietro ad un cavallo senza coda e respirare a pieni polmoni, col naso in su tra le belle case di via Toledo, sognando che tutti gli uomini siano uguali?

p.s. grazie amici della Gesco per avere portato Marco Cavallo per la prima volta a Napoli nei giorni del nostro Festival, ne siamo felicemente onorati

Maurizio del Bufalo