Portici, 11 novembre 2011 – quarto giorno di Festival

Dove c’era una fabbrica oggi si parla di grano e di cibo

A Portici l’hanno fatta grossa… nel senso buono e metaforico del termine, BLab, Seme di pace e Città del Monte, le tre realtà porticesi che hanno sostenuto alla grande la giornata festivaliera (ma sarebbe più corretto dire “le” giornate, perché la proiezione di “Genuino Clandestino” e “Supersize me” sono andate in onda anche nei giorni precedenti), facendo fuochi d’artificio per attirare l’attenzione della città – e non solo – sul problema del cibo e della sovranità alimentare, sugli strani maneggi che fioriscono attorno al bisogno primario della nutrizione e ad alcuni beni comuni.

E’ stata una bella operazione di informazione che non ha risparmiato nessuno, dalle scuole medie fino all’Università e finalmente la sera, al Fabric, a due passi da piazza san Ciro, ha avuto il suo epilogo insieme con un nutrito gruppo di cittadini che chiedevano di capire se la terra è ancora madre o matrigna. Devo ammettere che la scelta di portare il nostro Festival ogni anno in quella che fu una fabbrica di nastri  mi ha sempre fatto riflettere sul senso della cultura che è molto più rapida a interpretare le mutazioni  di questi luoghi più di quanto non sia la nostra sensibilità di viandanti distratti. Così vecchi capannoni, grazie anche al nostro Festival, diventano il posto dove riunirsi e discutere come nelle agorà greche, e i sacri luoghi del lavoro tornano a brillare di luce viva. Servirà a non dimenticare che il lavoro è forse il diritto n. 1?

Il Fabric, così, ha illuminato una serata in cui Ileana Bonadies ha agito da abile moderatrice, introducendo gradatamente alla discussione alcuni protagonisti della vita accademica e dell’associazionismo napoletano che hanno cercato di interpretare l’impatto che l’abbandono della vita rurale ha avuto sull’antropologia e sui costumi, ma anche sulla pancia e sullo stomaco di tanti. Non sono mancati gli scenari di politica multinazionale che hanno mostrato gli interessi (ormai neppure tanto nascosti) di chi cerca di monopolizzare il grano o l’acqua; forse non sono state inutili le nostre missioni in Argentina, dove la soia transgenica ha fatto danni epocali e ci ha fatto conoscere il dolore del popolo Mapuche al cui coraggio il Festival di Buenos Aires ha voluto donare il primo premio del concorso cinematografico di quest’anno. Ma non crediate che i Mapuche sono i soli a resistere contro le violenze alla Madre Terra.

A Portici, stasera, un grido forte e indignato, quello di Mirella Letizia della cooperativa Eureka che opera nelle Terre di don Peppe Diana e nei beni confiscati alla camorra, si è levato a svegliare le nostre coscienze. Mirella e i suoi amici resistono a testa alta a coltivare la frutta e il grano  laddove sono quotidiane le minacce e i tentativi di ritorno della malavita organizzata e ogni giorno questi ragazzi sono assaliti dalla protervia delle istituzioni locali, di uno Stato che non li considera neppure e gli taglia fondi e li isola. Tutto ciò mi riporta alla mente non solo i Mapuche ma anche i poveri terroni degli anni 60 che sfidavano da soli, bastoni alla mano, le cariche della Celere per occupare le terre abbandonate dai latifondisti e alla fine hanno vinto, dimostrando che anche la disobbedienza e lo scontro non sono sempre fuori della legge e dello Stato.

In questo mondo globale in cui vestiamo con camicie cinesi e scarpe bulgare e mangiamo grano indiano o soia argentina, non dobbiamo sforzarci di indagare troppo a fondo per capire che i padroni del mondo sono dietro l’angolo di casa nostra. La serata di Portici ci ha aiutato a pensare globalmente ma, soprattutto, ci ha invitato ad agire localmente, facendo “un pacco alla camorra”. Così parlò Mirella…

Maurizio Del Bufalo