Il paradigma Siriano
L’articolo che segue, di Giovanni Carbone, è stato pubblicato sulla rivista web Cantolibre.it il 19 Maggio 2015.
Quattro anni e duecentomila morti dopo, ammettiamolo pure, sappiamo poco o nulla della Siria.
In realtà, sappiamo poco di quasi tutto ciò che vive e muore lungo i bordi di questo lago salato su cui affacciano tre continenti su cinque e che per antica convenzione continuiamo a chiamare Mediterraneo. Eppure, anche quel poco che crediamo di sapere, quasi mai ha a che fare con la sfera delle cause quanto piuttosto con quella più visibile, ma sicuramente più manipolabile, degli effetti. Tra questi, uno dei più evidenti, intorno a cui s’imbastiscono clamorose mistificazioni mediatiche, è certamente illustrato dagli sbarchi dei migranti.
Si ripensi alla balzana idea, sostenuta in ambiti istituzionali anche molto autorevoli, che il gigantesco esodo in atto nel Mediterraneo trovi concausa nell’immonda e criminale opera di scafisti senza scrupoli.
Ci sarebbe poco da sorridere se questo fosse davvero l’approdo di una certa capacità di analisi sulla genesi delle nuove migrazioni e non, com’è ragionevole supporre, parte del gioco dell’inversione tra cause ed effetti, praticato da troppi apprendisti stregoni.
Nel corso del 2014, com’è noto, l’Italia si è impegnata a fornire risposta umanitaria ai viaggi della morte nel mediterraneo con la missione denominata “Mare nostrum”. Pochi però si sono soffermati sui dati di quella missione che ha soccorso 170 mila migranti sui 218 mila che nell’anno di riferimento hanno effettuato la traversata (dati Frontex).
La maggioranza dei soccorsi, costituita da uomini donne e bambini in fuga da aree di guerra, era così distinta : 42 mila erano siriani, 34 mila eritrei, 10 mila del Mali e 5 mila somali.
L’ondata migratoria, raccontata e vissuta come effetto indesiderato per il continente europeo, ha più di una causa anche se su alcune di esse opera uno strano silenzio selettivo.
Quarantaduemila profughi dalla Siria in viaggio disperato nel mediterraneo dicono, ammesso che lo si voglia ascoltare, che quattro anni di conflitto hanno richiesto un enorme tributo di sangue e devastato un antico paese distante meno di tre ore di volo.
Eppure noi, nella terra del tramonto, riusciamo a trovare un vero sussulto di consensuale commozione mediatica, arrivando ad invocare i caschi blu, unicamente quando l’insensata furia distruttrice delle milizie dell’Islamic State arriva a minacciare una perla archeologica come l’antica città di Palmira, quasi che le vestigia della storia passata fossero davvero in grado di insegnare qualcosa a noi “umani” del terzo millennio.
La Siria, appena quattro anni fa, era un paese di circa 23 milioni di abitanti retto da un regime familistico dispotico e poliziesco non dissimile da altri contro cui si levò la generosa sollevazione della migliore gioventù araba nel corso delle cosiddette “primavere arabe”.
Iniziata il 15 marzo 2011 con un raduno di massa nella capitale Damasco, la rivolta popolare e pacifica contro il regime di Bashar al Assad, divenne nel giro di pochi mesi, in forza anche delle brutali repressioni messe in campo, la terribile guerra civile tutt’ora in corso, trasformatasi in corso d’opera, a detta di molti osservatori indipendenti, in una sporca guerra per procura.
Amnesty International ed altri organismi di difesa dei Diritti Umani rettificano in rialzo i già impressionanti dati certificati dall’UNCHCR, l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati.
La guerra ha prodotto 7,6 milioni di sfollati all’interno del paese e costretto 4 milioni di siriani a rifugiarsi in altri paesi, per lo più confinanti, come: Turchia, Giordania, Egitto, Kurdistan Iracheno e soprattutto, Libano.
Già, il piccolo mosaico etnico libanese, poco più grande del nostro Abruzzo, che con i suoi 4 milioni di abitanti si fa carico di ospitare, da solo, 2milioni di profughi siriani di cui mezzo milione composto da bambini in età scolare.
Vallo a spiegare a chi in Europa abbaia all’invasione.
Cosa resta di un paese quando un abitante su due è costretto per continuare a vivere ad abbandonare la propria casa?
Quando metà delle sue infrastrutture civili e industriali sono andate distrutte?
Riescono i cultori del gioco dell’inversione tra cause e effetti ad immaginare anche lontanamente cosa comporti tutto ciò in termini di umana sofferenza?
Per farlo, forse, dovrebbero essere in grado di mettere in un frullatore la loro normalità, i loro affetti e la loro più o meno alta sicurezza esistenziale; premere il pulsante e…nella gelatina grumosa che residuerà sul fondo essere ancora capaci di riconoscere la propria vita.
Come osservato, prima dell’avvio del conflitto in Siria gli unici a beneficiare dello status di rifugiati in medio oriente erano i Palestinesi. Ormai, i Siriani li hanno soppiantati in questo tragico primato.
Una sintesi accettabile di quello in cui si è trasformato il conflitto siriano può essere presa a prestito da un passaggio di Olivier Zajec inserito un duro articolo sull’iniziale avventurismo diplomatico francese nella vicenda.
“La Russia fornisce armi al regime di Assad. Alcuni Stati del Golfo approvvigionano diversi gruppi della ribellione ( tra cui quelle del jihadismo radicale sunnita). La guerra civile si è trasformata in guerra regionale, dove Turchia, Arabia Saudita e Iran assumono sempre più posizioni antagoniste, trasformando la terra di una delle civiltà più antiche del mondo in un’arena il cui destino viene deciso altrove”.
Ma lo schematico quadro di sintesi non sarebbe completo se si omettesse di dire che, nel “grande gioco” che ha fatto della Siria una linea del fronte tra diversi attori internazionali, la componente laica dell’iniziale insurrezione è risultata soccombente, che Iran e regime di Assad sono contro le monarchie del Golfo sostenute degli Stati Uniti e che Russia e Cina, sostenitori di Assad, sono antagonisti nell’area degli USA .
Infine Israele, l’altro grande convitato di pietra, mantiene un interessato distacco in uno scontro che si alimenta anche di contrapposizioni confessionali in seno al mondo islamico, avendo cura, ad esempio, di astenersi all’ONU sulla condanna dell’annessione della Crimea da parte della Russia, temendo l’imbarazzante similitudine con sue altrettanto se non più disinvolte annessioni in Palestina.
Sappiamo poco della Siria e quel poco non riguarda i famosi tappeti di Aleppo ormai quasi interamente distrutta dai bombardamenti incrociati.
Sappiamo poco del volto feroce con cui il regime di Assad ha retto per anni quel paese.
Le denunce degli attivisti dei diritti umani sulle pratiche diffuse di tortura, sparizioni e uso di pratiche brutali nella repressione del dissenso non interessavano quasi nessuno da questo lato del mediterraneo.
Le ragioni della realpolitik nella complessità dello scacchiere medio orientale possono rendere sordi anche i migliori, ammesso ne esistano.
Questo articolo non contiene nessuna cifra o riferimento che un soggetto mediamente curioso non sia in grado di verificare con l’ausilio di un p.c. o di uno smartphone, tuttavia, è stato scritto nella piena consapevolezza della sua quasi assoluta insignificanza.
Ma pure, nell’ altrettanto assoluta certezza che, in tempi in cui si colgono sfumati tratti di vaga somiglianza agli anni 30 del secolo scorso, gli anticorpi sociali necessari a resistere alla deriva razzista montante in Italia e in Europa debbano, purtroppo per loro, nutrirsi anche di simili insignificanze.
Giovanni Carbone (Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli)