L’edizione 2024 del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, come sempre caratterizzata da film di grande qualità e coraggio rivolti alla difesa e tutela dei Diritti Umani, ha provato, attraverso gli Eventi Internazionali, a fare il punto sull’offerta culturale e professionale disponibile per chi volesse approfondire gli insegnamenti che costituiscono l’indispensabile background degli operatori di Pace. Non a caso la XVI edizione è stata intitolata “Costruiamo una Cultura di Pace” e svolta nel ricordo di Danilo Dolci, che della Pace e della Non Violenza, ma anche dell’impegno civico per i Diritti Umani, fu apostolo oltre che promotore di lotte antifasciste, antimafia, per l’affermazione di un concetto moderno di civiltà, uguaglianza e fratellanza, a partire dalla Cultura che è la vera energia del suo pensiero.

Parlare di “Cultura di Pace” comporta necessariamente il confronto con i centri di formazione e quindi l’esame dell’offerta formativa degli Atenei in cui il tema della Pace è un obiettivo esplicito. E l’incontro con le scuole di Uppsala, Costa Rica (ONU), Basilea e Napoli (14 novembre, Sala delle Conferenze dell’Univ. Orientale) è stato solo l’anticipo di quello che vivremo nei prossimi mesi con gli accordi per realizzare la Summer School di orientamento verso le Professioni della Pace che porterà il nome di Mario Paciolla e che speriamo possa vivere negli anni a venire.

Ma la Pace può essere studiata e approfondita anche attraverso le pratiche sviluppate dal basso da organizzazioni non istituzionali che si occupano di offrire le conoscenze essenziali per poter affrontare il lavoro di cooperazione o di mediazione tra le parti in conflitto o che soffrono una distanza sociale e culturale apparentemente incolmabile. Organizzazioni non governative, istituti di ricerca ed enti formativi e persino Scuole di Pace “di strada”, ovvero associazioni che favoriscono l’integrazione sociale di persone immigrate e costruiscono processi multiculturali ed esperienze di convivenza, sono alcune delle forme, talvolta spontanee, in cui la Pace emerge come necessità ed ispirazione di progetti e percorsi.

A tutto questo il nostro Festival ha voluto porgere ascolto ed attenzione per indicare ai giovani le strade da percorrere per alimentare nuove professionalità ed opportunità di crescita, di lavoro, di impegno.

L’edizione 2024 del nostro Festival è stata sicuramente un momento felice, di confronto tra il pubblico, gli organizzatori e molti ospiti che, a vario titolo, operano nel campo della Pace e sono venuti a parlare del proprio vissuto da vari Paesi del mondo. L’abbiamo pensata così, ambiziosa e pure umile, aperta alla speranza che questo anno buio possa finire presto e si possa riprendere a vivere operando per un futuro dignitoso.  Di alcuni di questi interventi, riportiamo qui qualche frammento, a ricordo di due settimane davvero emozionanti.

I ricordi di Anna e Daniela

Avere a Napoli Daniela Dolci, già musicista e direttora di orchestra, figlia di Danilo, ormai dichiaratamente sulle orme del padre, in cerca del rilancio delle metodiche socio-pedagogiche dolciane, dei sogni di Pace universale e del recupero dei luoghi che videro fiorire il verbo paterno, è stata un’esperienza emozionante. A guidarci in alcuni passaggi della vita del Borgo di Dio, a Trappeto alle porte di Palermo, dove Dolci aveva costruito una roccaforte di creatività culturale, è stata la giornalista Anna Polo, esponente di spicco dell’agenzia giornalistica Pressenza, che di quei luoghi serba un ricordo speciale. Tra i genitori di Anna, architetti e progettisti del Borgo, e Danilo Dolci, c’è stata un’amicizia ed una affinità ideale che, cinquant’anni dopo, si sono intrecciate sul palcoscenico della Biblioteca Annalisa Durante di Forcella, teatro del XVI Festival. Nel dialogo tra le due amiche, costruito a partire dal film di Alberto Castiglione (“Verso una nuova vita”), i ricordi di quel passaggio storico hanno ritrovato la dolcezza di un’adolescenza condivisa all’ombra di un progetto culturale rivoluzionario che allora prese forma e ancora oggi attrae per la sua forza innovativa.

Daniela ha voluto ripercorrere sogni e progetti troppo presto abbandonati dall’indifferenza delle istituzioni locali a cui oggi la sua determinazione offre nuova linfa, nel tentativo di restaurare gli spazi del Borgo e ripercorrere la medesima ispirazione. A fare da cornice alle due serate è stato il contributo di Giuseppe Barone, biografo di Dolci e vice presidente del Centro Creativo di Trappeto, accompagnato dalle citazioni, rapsodiche, dolciane, recitate da Enzo Salomone, attore napoletano da sempre vicino al Festival e dalle riflessioni a voce alta della professoressa Isabella Behar. Davvero un cammeo quello che ci ha offerto il monologo a due voci di Giuseppe Semeraro, attore salentino, che ha riproposto il suo fortunatissimo “Digiunando di fronte al mare” in cui abbiamo rivissuto l’ideale discorso tra Dolci e uno dei suoi amati contadini di fronte al Tribunale inquisitore che accusava il pacifista di avere aizzato alla rivolta la gente siciliana.

Le due serate hanno offerto al pubblico del Festival, accorso numeroso, attimi di concreta utopia, ripercorrendo il sogno rivoluzionario di quegli anni in cui la gente delle campagne siciliane ha vissuto un ruolo di apripista della moderna pedagogia e di cui, grazie al lavoro ostinato di Daniela, sentiremo presto nuovamente parlare.

L’utopia planetaria di Luigi e la forza di Gino.

Non da meno è stata la performance del giurista Luigi Ferrajoli, emerito professore di filosofia del Diritto dell’università Roma 3, che ci ha offerto, il 21 novembre nella Sala Conferenze dell’Orientale, 30 minuti di formidabile sintesi del concetto di “garanzia” delle Dichiarazioni Universali, un elemento strutturale che non possiamo ulteriormente eludere in questa epoca segnata da continue violazioni dei regolamenti sovranazionali e dal contrasto aperto tra le decisioni della politica e dei Governi nazionali, opposte al Diritto Internazionale. Il suo progetto di “Costituzione della Terra”, partendo dalla cruda realtà della guerra planetaria che si sta gradualmente realizzando e dalla contemporanea necessità di una riforma dell’ONU, ormai in profonda crisi, propone una Costituzione Universale da approvare e accettare come regolamento giuridico, valido per tutti gli Stati, integrato dalla presenza di organi esecutivi di garanzia che finora non sono stati mai immaginati e che costituiscono il limite superiore di ogni strumento finora approvato.

A dispetto delle numerose semplificazioni dei suoi critici che lo accusano di essere un utopista, Ferrajoli oppone la spontaneità di uno studente che, a margine di una sua conferenza, gli aveva chiesto come mai una esigenza del genere non fosse mai stata avvertita prima. Se si riflette bene, l’anomalia potrebbe essere proprio in questo ritardo e non nell’averne compreso la necessità. E’ inevitabile che le “garanzie” di cui parla Ferrajoli. comporteranno una lunga e serrata trattativa che sarà sicuramente l’ultimo passo del duro percorso che ci separa dall’approvazione di una Costituzione della Terra, così come Ferrajoli l’ha progettata e proposta nel suo ultimo libro, ma sicuramente è questo il passaggio obbligato da superare, se non si vuole ricadere in un mondo di guerre totali, dove il Diritto Internazionale viene strumentalizzato ogni qualvolta fa comodo a questo o a quel potente e il conflitto armato cancella ogni logica di Pace e convivenza.

A Ferrajoli, di cui il Festival è sostenitore da tempo, abbiamo regalato la versione tascabile della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” che da alcuni anni stampiamo per le scuole, un pocket dei 30 articoli più famosi della storia giuridica del mondo, preceduti da poche righe tratte da una postfazione di Gino Strada che ne auspicava la diffusione anche attraverso un formato portatile. Quei 30 articoli “senza garanzie” sono stati traditi e spesso vilipesi da odi e supremazie nazionali, ma sono stati sicuramente un passo deciso verso l’ordine giuridico e civile del pianeta, dopo migliaia di anni in cui solo la guerra è stata il punto d’approdo delle controversie internazionali. Questa dichiarazione va ricordata e portata sempre in tasca, con l’augurio, scritto nella dedica che gli abbiamo fatto, che il suo progetto costituente abbia migliore fortuna perché le utopie non sempre si realizzano compiutamente, ma servono a costruire un mondo di volta in volta migliore, ad indicare l’orizzonte che spesso scompare nelle ansie quotidiane. E questo è senz’altro l’insegnamento di Gino Strada che, senza avere ambizioni universali, riuscì con la sua sola forza umana a fermare la produzione di mine antiuomo durante il conflitto afghano. Un gesto eroico e utopico di cui molti hanno perso memoria e che ancora oggi fa riflettere e sorprendere.

La lotta di Rita contro la cultura di guerra, le parole di Luigi per il disarmo   

Nella sala del Cinema Vittoria, gremita di studenti e studentesse, Rita Vittori, docente scolastica ed esperta di Pace del Centro Sereno Regis di Torino, lo ha detto senza mezzi termini ai discenti e ai dirigenti scolastici: “fate attenzione alle lusinghe della Leonardo” l’impresa italiana che costruisce dispositivi militari e arruola giovani, che anima incontri nelle scuole e nelle università per mostrare che il progresso tecnologico ha bisogno di giovani menti, mascherando la logica dell’armamento planetario che è il fine ultimo di queste strategie. L’appello di Rita, rivolto alla platea studentesca, è stato un allarme chiaro, senza mezzi termini e ad esso uno studente ha reagito chiedendo come si possa ignorare una offerta di lavoro concreta, in un momento come questo in cui il lavoro è un bene prezioso, una merce rara di cui è impossibile fare a meno. Il conflitto tra Pace e bisogni è una delle strettoie a cui conduce la logica degli armamenti che produce valore aggiunto nei Paesi ricchi, nei distretti ad alta intensità industriale e genera morte e odio nei Paesi poveri. Ciò rassomiglia al contrasto tra lavoro e salute che vivono i territori del Terzo Mondo, avvelenati dagli scarichi industriali delle acciaierie da cui i governi e le imprese traggono grandi profitti e, i popoli, decine di migliaia di posti di lavoro. Cosa preferire? Il lavoro o la salute, la Pace o il benessere?

L’appello di Rita ci ha fatto riflettere proprio su questo dilemma e sulla contraddizione che i ragazzi hanno avvertito con drammatico realismo. Se qualcuno ti propone un lavoro “sporco” lo fa mostrandoti una vita apparentemente ricca e pulita, senza svelarti le implicazioni e i rischi che sottende.

E’ a questo punto che abbiamo sentito forte l’impulso di rivelare che già altre volte, in epoche recenti, l’Esercito ha tentato di arruolare e impiegare uomini in zone di guerra, esponendoli a rischi altissimi senza alcun avvertimento, solo incentivandoli con una retribuzione molto alta. E’ stato il caso della guerra dei Balcani, negli anni 90, in cui alcune centinaia di soldati e ufficiali dell’esercito italiano, hanno pagato con la vita e/o con la salute la contaminazione ambientale con armamenti potenziati dall’uranio impoverito. La prossimità di armi speciali, potentissime ma dotate di effetti letali anche per gli utilizzatori, ha provocato decine e decine di “morti lente”, di tumori dovuti alla radioattività dei materiali utilizzati nei proiettili che hanno falcidiato giovani vite di militari che avevano accettato contratti vantaggiosi di ingaggio in zone di guerra. A tutt’oggi si contano 400 morti bianche e 7000 casi di malattia secondo i calcoli dell’Osservatorio Amianto Purtroppo, abbiamo fatto notare, questo genere di danni sono difficili da dimostrare, ma riproporre, a distanza di anni, la stessa logica suicida è inaccettabile e va segnalato alle scuole la pericolosità di queste strategie. E Rita ci ha dato una lezione attuale e vitale.

Come si può ben comprendere, la Pace non è soltanto auspicabile, ma è sicuramente una scelta più intelligente della guerra e delle sue conseguenze.

A conclusione di questa disamina, il giurista Luigi Ferrajoli, ha tenuto una relazione sulla necessità del disarmo e sull’enorme produttività dell’industria degli armamenti, sulle conseguenze ambientali dell’uso di armi e sui collegamenti tra l’alta finanza e la guerra, cioè sugli aspetti economici legati ai conflitti che rendono la guerra un formidabile affare, al di là degli aspetti di facciata che descrivono il conflitto armato come una scelta, apparentemente inevitabile, di giustizia e legittima difesa.

Le scuole israeliane non sono scuole di Pace, ci spiegano Ezster e Rana.

Portavoci del più famoso movimento pacifista del Medio Oriente (Combatants for Peace), Rana Salman, palestinese di Betlemme, ed Ezster Koranyi, ebrea ungherese e cittadina israeliana, sono venute a Napoli a portarci una straordinaria testimonianza di coraggio e realtà su temi di quotidiana resistenza nel Paese più devastato del Medio Oriente. Non poteva mancare un capitolo del nostro Festival dedicato alla tragedia del popolo Palestinese e alla difficile convivenza con quello israeliano. Le vicende strazianti della guerra tra Hamas e lo Stato di Israele scatenate dall’azione terroristica del 7 ottobre 2023 sono note a tutti, ma il Festival ha preferito non indugiare sulle stragi di civili di cui ogni giorno i nostri mezzi di informazione ci rendono partecipi e provare ad interrogare le nostre due ospiti su questioni meno note, ma altrettanto dolorose e foriere di intolleranza e nuovi conflitti.

Al mattino di mercoledì 20 novembre, davanti a 200 studenti medi napoletani, le parole di Ezster e Rana hanno chiarito cosa significa essere pacifisti in un Paese in guerra continua, dove l’occupazione militare, da quasi 60 anni, ha creato un regime di apartheid senza precedenti, di dittatura militare in cui i diritti dei due popoli sono talmente squilibrati da rendere i Palestinesi veri e propri succubi e schiavi degli israeliani. Al centro del dialogo con i giovani c’è stata dapprima la storia dei Combattenti per la Pace, raccontata anche grazie ad un breve filmato in cui gli ex militari israeliani e gli ex partigiani palestinesi che hanno deciso di abbandonare l’uso della forza per far valere le ragioni della Pace, spiegano come sono arrivati alla scelta non violenta. Poi, subito dopo aver ascoltato le loro storie, un eccellente filmato della televisione svizzera (La cacciata dei pastori) ha portato gli studenti nel vivo della questione coloniale, mostrando come avviene il furto di terra che quotidianamente si vive in Cisgiordania, territorio palestinese occupato da Israele, ad opera dei coloni ebrei che, con l‘aiuto dell’esercito, cacciano i contadini palestinesi dalle terre di loro proprietà per farne un insediamento israeliano, giustificando la violenza con l’ispirazione messianica del loro agire.

Al di là della apartheid giuridica e delle rappresaglie contro la popolazione civile, gli insediamenti abusivi dei coloni sono la questione più grave da valutare per capire che da parte del governo israeliano non esiste alcuna volontà di convivenza pacifica col popolo palestinese. L’attenzione dei giovani presenti è stata catturata dalle vicende chiaramente esposte nel filmato e, al termine della mattinata, un gruppo nutrito di studenti ha circondato le due testimoni per continuare ad interrogarle. Autorevole come sempre, Luisa Morgantini, leader di Assopace Palestina, si è rivolta ai giovani presenti spiegando come la resistenza pacifista sia nata venti anni fa da un gruppo di ex militari delle due sponde e come lei stessa abbia partecipato alle prime riunioni clandestine, ricordando la diffidenza, i dubbi, le paure emerse in quei giorni, ma anche la soddisfazione di avere intuito l’unica strategia percorribile senza spargimenti di sangue. Molte delle considerazioni svolte nella mattinata sono raccolte nel prezioso volume “Combattenti per la Pace” edito da Multimage e curato dalla giornalista di Pressenza Daniela Bezzi, anche lei presente al Cinema Vittoria, che ha sostenuto il Festival nel percorso di avvicinamento a questa giornata ed ha favorito la tournee italiana di Ezster e Rana.

Il confronto con le due ospiti è proseguito nella serata a Piazza Forcella dove le domande hanno avuto differenti ispirazioni e, oltre alla conoscenza del loro movimento pacifista, l’analisi è passata all’esame della “democrazia più importante del Medio Oriente” per capire se, nei territori occupati, da Gaza alla West Bank, i ragazzi delle due etnie possono frequentare scuole comuni e godere di una educazione alla convivenza. E qui l’atteggiamento discriminatorio degli occupanti israeliani è emerso in tutta la sua radicalità. Le scuole dei territori occupati sono di fatto luoghi di discriminazione. Allevare i bambini nella paura esaltando la differenza di appartenenza è un presupposto di razzismo inaccettabile che genera odi e diffidenze di lungo periodo. La comune formazione di base resta il migliore crogiolo per superare le differenze culturali dei due popoli e creare un nuovo popolo; quindi far crescere i bambini insieme può alleviare l’odio etnico coltivato da generazioni. Ed è altrettanto vero che impedire questo effetto di naturale empatia è una colpa grave di cui gli israeliani quotidianamente si macchiano. A dire queste cose è stata proprio Ezster che ha ammesso di avere iscritto sua figlia ad una scuola bilingue (arabo e israeliano) per impedire la discriminazione culturale ed umana che si coltiva ordinariamente nel suo Paese e Rana ha confermato che troppe fazioni politiche e militari vogliono che questo odio sia allevato sin dalla prima infanzia, per convincere tutti che non esiste una soluzione alla questione arabo-israeliana che non sia la guerra. Su queste parole rifletteremo a lungo.

Due donne in Marcia, Cristina e Lorena, portano un messaggio di cura e speranza.

La Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Non Violenza ha fatto sosta a Napoli per portare il suo saluto al nostro Festival. Il volto e la voce di Cristina Santoro e Lorena Orruzco, colombiana, ci hanno spiegato come la Marcia interpreti il desiderio di collegare tutti i pacifisti e non violenti del mondo, attraverso questa maratona mondiale che raccoglie, durante il suo lunghissimo percorso, costanti manifestazioni di affetto e solidarietà. Della giornata trascorsa con le due marciatrici, ricorderemo in particolare alcuni passaggi del discorso di Lorena che, al mattino con gli studenti al Cinema Vittoria e nel pomeriggio all’Orientale, ha voluto sottolineare come la sua impresa voglia soprattutto portare serenità e umanità nei luoghi in cui il conflitto e la guerra provocano i traumi più dolorosi. In America Latina, dove numerosi sono stati i conflitti civili e le sopraffazioni subite dai popoli ad opera di violente dittature militari, l’esigenza di curare i traumi psicologici provocati dalle guerre richiedono una cura costante e un adattamento alle nuove realtà per coloro che sono stati immersi, per anni, nell’odio e nelle lotte civili, che hanno lacerato il tessuto sociale di interi Paesi. Le parole di Lorena hanno dunque raccontato come la cura psicologica dei soggetti traumatizzati sia lunga e meticolosa ed impegni numerosi operatori che fanno parte dei gruppi che animano la Marcia. Si è trattato di una testimonianza umile e dettagliata che, per un pomeriggio, ha distolto l’attenzione del Festival dagli scenari di guerra, europei e mediorientali, che sono ormai abituali compagni della nostra quotidianità a conferma della complessità degli aspetti che una vera Cultura di pace deve affrontare.

Considerazioni finali: la Pace all’orizzonte

Due settimane di incontri, riflessioni e dialoghi con i protagonisti di alcune iniziative di Pace e di Non Violenza sono serviti a sviluppare la consapevolezza che parlare di Pace vuol dire innanzitutto ascoltare in silenzio le esperienze di chi, per decenni, ha provato a far ragionare l’Umanità su quanti e quali contributi siano necessari per sostenere il cammino di un ideale ormai urgente. Queste giornate ci hanno dato la certezza che gli attori di questo cammino sono molteplici e che occorre costruire una competenza polivalente a partire dalle scuole e fino alle università, che la Pace è una scienza, ma anche una professione, che la Pace conviene perché è la migliore cura ai mali del mondo, perché mette l’Umanità al riparo dalla distruzione dei beni comuni e delle risorse naturali e ambientali che sono l’unico vero supporto materiale alla nostra vita.

Ma ascoltare i testimoni di queste lotte ha significato anche capire che la speranza c’è ed è ancora viva e cresce, nonostante l’aumento delle spese belliche e il dilagare delle armi nucleari, nonostante le ideologie religiose e il nazionalismo siano spesso l’innesco per queste logiche devastanti.

C’è molto da sperare, perché c’è tanta gente che, incurante del fuoco delle armi, sfida l’odio e la morte, proteggendo con il proprio corpo i contadini palestinesi che raccolgono olive e frutta nei campi che cercano di rubargli in nome di un dio falso e bugiardo, mentre altri salvano vite di profughi nel mare della speranza che li porta in Europa, lontano da fame, torture e persecuzioni; perché ci sono centinaia di operatori che estraggono persone ancora vive dalle macerie e altrettante che le attendono negli ospedali a rischio di bombardamenti e centinaia di onesti giornalisti che mettono a repentaglio la propria vita per restituirci ogni giorno la verità su quello che sta accadendo ai civili inseguiti, agli intellettuali, ai dissidenti e ai tanti operatori di pace e cooperanti che proteggono l’esodo silenzioso di minoranze perseguitate da leggi razziali.

Avere incontrato, anche solo per pochi giorni, chi vive queste realtà, averne ascoltato i racconti anche soltanto attraverso film e testimonianze verbali, ci ha restituito la certezza che il cammino della Pace, seppur lungo, va intrapreso subito e che le Professioni della Pace sono da annoverare a pieno titolo nell’orizzonte delle Scienze Umane e, infine, che la missione del XVI Festival è stata quanto mai opportuna e i suoi obiettivi vanno perseguiti, da ora in avanti, con fermezza.