Impact Lab Meeting in San Sebastian, incontro con la regista Pamela Yates
In occasione del XIV Festival del Cine de los Derechos Humanos di San Sebastián, la regista e attivista di fama internazionale Pamela Yates ha detto la sua – assieme ad altri esperti e addetti del settore: Nicole van Schaik (Britdoc, London), Femke van Velzen, Tadeusz Straczek (Future docs initiative) –, in merito all’impatto sociale dei film e festival di diritti umani, insistendo soprattutto su come il cinema abbia in sé il potenziale per smuovere le coscienze e risvegliare la consapevolezza.
Lo ha fatto a partire dalla sua esperienza di cineasta, che da sempre promuove la riflessione e il dibattito. Ancora di più da quando si è trovata tra le mani, senza nemmeno averne consapevolezza, alcuni documenti video incriminanti, che aspettavano solo di essere analizzati, ampliati e raccontati per cambiare la storia del Guatemala.
Il Cinema, ci spiega assieme al produttore Paco de Onís, è un efficace strumento per riportare casi di abusi e violazioni di diritti umani, ma i filmmakers che lavorano per dar voce a tali questioni affrontano grandi sfide sia durante il processo creativo che durante quello di ricerca, così come nella produzione e diffusione dei loro lavori.
Ma “arrendersi” è solo l’ultima decisione da prendere lontanamente in considerazione, perché “anche quando ti senti impotente ad agire in merito ad una data questione, è comunque importante fare un documentario e parlarne.”
È importantissimo in verità: un film ben fatto può aiutare la gente a immaginare cose che sembrano inimmaginabili, immaginare che è possibile aprire una breccia nel muro dell’impunibilità, dell’ingiustizia e della prevaricazione. I militari possono avere potere, ma anche le storie hanno molto potere. Ne hanno anche di più delle bombe e del veleno. Partono da qui le motivazioni per la creazione di Skylight Pictures, di cui la Yates è co-fondatrice e creative director. Un’organizzazione senza profitto nata dalla necessità di rendere gli spettatori partecipi delle vicende umane narrate nei progetti documentari, soprattutto per diffondere la cultura dei diritti umani.
L’esperienza di Skylight ha inizio nel 1981 (anno della sua fondazione) e la principale finalità che si è sempre preposta è stata: coinvolgere, educare e aumentare la comprensione dei diritti umani presso il pubblico. Ricorrendo ai racconti delle vicende personali delle persone che hanno vissuto direttamente le vicende narrate: così è, ad esempio, sorto When the mountains tremble (1983), collage di scene distinte tenute insieme dal racconto di Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace nel 1992.
Certo, c’è da ricercare alleati internazionali e sapere come utilizzare la legge creativamente e a supporto degli svantaggiati. C’è da andare in giro e parlarne, utilizzare tutti i mezzi e i canali possibili, tradurre i documentari nelle lingue parlate dai popoli che più sono stati colpiti dalla violenza, perché l’informazione è il primo passo verso la libertà e, allo stesso tempo, restare in contatto con le persone e i luoghi che di quelle storie sono protagoniste e portavoci. In questa chiave deve interpretarsi State of fear, documentario del 2005, avente ad oggetto l’escalation di violenza in Perù nel periodo 1980-2000, fra cui la presidenza di Alberto Fujimori. Del film è stata, perciò, realizzata una versione in quechua – la lingua indigena parlata dalla maggior parte delle persone nelle zone rurali – poi proiettata gratuitamente nei villaggi. Il tutto con un unico chiaro scopo: aumentare la conoscenza dei fatti da parte delle persone che, disponendo solo di televisioni, avevano una visione del problema distorta dalla propaganda.
Ancora più interessanti risultano tre progetti sempre legati alle vicende socio-politiche del Guatemala: il primo consistente nel documentario Granito: how to nail a dictator (2011), sorto dalla collaborazione fra la Yates e un’avvocatessa di diritto internazionale, ricostruente il genocidio della popolazione maya da parte del regime militare e il processo di riscoperta del passato tramite la riesumazione delle fosse comuni e l’identificazione dei corpi; il secondo avente ad oggetto la realizzazione di un portale web, su cui sono state caricate le foto dei desaparecidos, le loro informazioni, dando la possibilità agli utenti di partecipare attivamente al processo di ricostruzione della memoria collettiva del Paese; il terzo consistente in una serie web in cui, con video particolarmente brevi (dai 1 ai 14 min.), si è documentato il processo per genocidio e crimini contro l’umanità a Efraín Ríos Montt, dittatore in Guatemala nel periodo 1982-1983. E proprio durante le sedute della Corte, è stata trasmessa via radio una versione in 12 episodi di When the mountains tremble.
Come ha avuto modo di chiarire Pamela Yates, ora al montaggio di 500 Years (ricostruente il periodo 2013-2015 in Guatemala), ogni documentario è un viaggio di scoperta; per questo è necessario adottare un punto di vista da cui “visionare” la vicenda, senza tuttavia imporre alcun percorso prestabilito a chi ne è protagonista: da cui la necessità di coinvolgere la persona nello stesso processo creativo. “Essere testimone è l’essenza dell’essere documentarista”. Quello della Yates è un viaggio fatto di passione, consapevolezza e volontà di riscatto di un popolo: il focalizzarsi sulle vicende di un Paese diviene così un percorso poetico e cognitivo, diretto a scavare sempre più profondamente nell’animo dello spettatore. Fra l’altro, “se decidi di fare un documentario a lungo termine, devi essere costantemente ispirato dalla questione”.
Che siano i film a parlare, allora; che diano qualcosa ai più grandi e ai giovani, a chi di cultura fiorisce e a chi ne sa ben poco, fosse anche solo per dimostrare che molti di noi non chiudono gli occhi di fronte a ciò che siamo: esseri umani.
Alessia La Montagna, Luca Zammito
Youth Jury in San Sebastian
Festival del Cinema dei Diritti di Napoli