Messico: prove (riuscite) di narco-stato
L’articolo che segue, di Giovanni Carbone, è stato pubblicato sulla rivista web Cantolibre.it il 21 Aprile 2015.
Il terrore sotto il sombrero
Perché assassinano gli studenti della scuola rurale messicana di Ayotzinapa?
Dopo il G8 di Genova, un funzionario statale, per sintetizzare lo scempio dei corpi operato nella scuola Diaz, non trovò nulla di più efficace che evocare l’ormai logora metafora della “macelleria messicana”.
Il Messico infatti, nel silenzio quasi perfetto del mondo, è tragicamente assuefatto alle violenze più efferate. Ma, il massacro di 43 studenti di una scuola rurale ha fatto ribollire di rabbia la popolazione come mai prima, inducendola a scendere in strada in forme tanto imponenti da non poter essere ignorate, anche se in Italia non se ne è accorto quasi nessuno.
La notizia, annegata nell’universo liquido della nostra informazione, dev’essere apparsa come un frammento troppo distante per essere fissata anche solo come piccolo punto da aggiungere sulla mappa della memoria tossica dell’orrore del mondo.
Eppure, quella notizia, è stata, e può ancora essere raccontata, con parsimonia di dettagli:
Città di Iguala – Stato di Guerrero – Messico meridionale – 26 settembre 2014.
La polizia locale attacca con armi da fuoco un gruppo di studenti, rei di aver dirottato due autobus, con l’intento di raggiungere la città che dista 125 chilometri, per organizzare una raccolta fondi a sostegno delle attività della loro scuola.
Ne uccide sei, ne ferisce venti, ne arresta 43 e, per strano che sia, subito dopo li consegna alle cure di una banda di narcotrafficanti.
Questi li conducono in una discarica, gli sparano e ne gettano i corpi, alcuni ancora vivi secondo testimoni oculari, in una fossa.
Li ricoprono con pezzi di legno imbevuti di gasolio e gli danno fuoco; l’incendio dura l’intera notte.
Per rimuovere i resti carbonizzati e frantumare i residui di ossa e denti, così da rendere arduo qualsiasi riconoscimento, devono attendere la sera del giorno seguente.
Poi, raccolgono le ceneri in bustoni della spazzatura, li zavorrano e li gettano nel fiume San Juan, secondo una ricostruzione.
Gli studenti da allora: ufficialmente desaparecidos.
Ecco, la notizia riposa comoda in diciassette righe scarse, in tutto il suo sopportabile strascico di umanissima bestialità. Tuttavia, anche così, si deve essere sordi davvero per fare finta di non sentire la semplice domanda dai ragazzi messicani urlata e scritta in ogni dove: “Perché, perché, perché ci ammazzano?”
Già, perché li ammazzano?
Il Presidente Enrique Pena Nieto, per arginare la rabbia sociale montante, si è affrettato a promettere un’inchiesta federale e giustizia sulla strage di Iguala.
Peccato che secondo il Sistema Nazionale di Sicurezza Pubblica, organo governativo, nel corso dei primi venti mesi del suo mandato presidenziale, “si siano registrate 57.899 inchieste preliminari per omicidio volontario”.
Appena 14.205 in più rispetto all’omologo periodo del suo predecessore. Come dire che ogni 20 mesi, in quel lontano paese, sparisce di morte violenta l’equivalente degli abitanti di una media città italiana.
Eppure, è bastato che il presidente Pena Nieto nel 2013 aprisse il settore dell’energia alle multinazionali per essere osannato da Financial Times e salutato in un editoriale del Wall Street Journal per l’avvento del “modello messicano”.
In fondo, il Messico è formalmente una democrazia, fino a prova contraria. Forse, una narco/democrazia, una sorta di variante infetta dove corruzione e collusione tra organi dello stato e della criminalità disegnano confini improbabili, ma pur sempre una democrazia, dove si sperimentano le stesse “riforme” neoliberiste, in economia e nel sociale, predicate anche nella civile Europa.
Rafael Barajas e Pedro Miguel, in un puntiglioso articolo apparso su Le Monde Diplomatique, citando studi statunitensi – messicani sui beni illeciti, riportano stime che fanno oscillare tra i 25 ed i 40 miliardi di dollari l’ammontare della ricchezza che ogni anno i cartelli della droga fanno transitare dagli USA in Messico.
Considerato che le esportazioni di petrolio e le rimesse degli emigrati ammontano rispettivamente a 25 miliardi di dollari ciascuna, appare evidente quale sia la fonte valutaria principale del paese. Ne consegue che : “Il Messico riposa su una narco – economia che non può mantenersi senza la convivenza di un narco – Stato.”
La strage di Iguala, con il concorso di poche cifre, perde molto del presunto carattere di irrilevante mattanza in una delle periferie del mondo anche per chi, da questo lato del mondo, è abituato ad associare lo Stato di Guerrero unicamente alle dolci spiagge di Acapulco.
Al tempo stesso, la sfiducia di familiari delle vittime e del movimento di sostegno cresciuto intorno a loro, verso le promesse di giustizia del presidente Pena Nieto, paiono divenire molto più condivisibili.
Ma, pur nel contesto messicano, resta pur sempre difficile comprendere il perché di tanto feroce accanimento verso gli studenti della Escuela Normal Rural “Raul Isidro Burgos” di Ayotzinapa.
Le scuole normali rurali, fondate negli anni venti, sono un lascito della rivoluzione messicana (1910 – 1917) ed hanno sostanziato il progetto di diffondere un insegnamento di qualità nelle campagne per giovani maestri poveri di estrazione contadina.
Scuole, pensate e realizzate come baluardi didattici contro i soprusi dei latifondisti. Così non stupisce che dall’insediamento dei primi governi neoliberisti, sia stato perseguito un sistematico obiettivo di smantellamento di questi particolari e combattivi Istituti.
Ne sopravvivono ormai una quindicina in tutto il paese e i drastici tagli di fondi costringono allievi e docenti ad attivare raccolte di fondi integrativi per continuare ad esistere.
Chi volesse, sulla rete, potrà cercare tracce degli attacchi condotti da importanti testate giornalistiche messicane contro i normalisti, e l’elenco di violenze e intimidazioni da parte di forze di polizia e paramilitari succedutesi dal 2007 in poi.
Diego Enrique Osormo, giornalista e documentarista, ha intervistato in varie occasioni gli alunni di Ayotzinapa e cosi ha scritto: “ Dalle conversazioni con molti di loro ho appurato perché esiste questo accanimento nei loro confronti: gli alunni sono di umili origini e molto studiosi, in media leggono due o tre libri a settimana, e oltretutto sono interessati ai problemi politici del posto in cui vivono. Come dire: sono studenti informati e critici, talmente idealisti e coerenti con le proprie idee che cercano di agire per cambiare le cose.”
In tempi di social media, questo articolo avrebbe senso se anche un solo studente napoletano trovasse il modo di contattare i coetanei della scuola rurale di Ayotzinapa per solidarizzare, saperne di più ed esprimere vicinanza generazionale alla comune lotta per il diritto ad una istruzione pubblica, il Messico in fondo, non è troppo lontano.
Su Repubblica del 12 aprile scorso, Eugenio Scalfari concludendo il suo laico sermone domenicale, dedicato in parte ai rischi di certe riforme di spingere verso una “democratura italiana”, diceva:
“L’elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremmo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente, ma chiede tempo lungo per essere costruito a misura dell’uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.”
Forse, a ripensarci, scorrendo sulla rete i volti dei 43 normalisti di Ayotzinapa, non ha tutti i torti.
Giovanni Carbone (Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli)