Masseria del Pozzo, uno dei nostri film …
Ieri mattina mi aggiravo tra i rifiuti del campo di Masseria del Pozzo dove la Commissione Diritti Umani del Senato e la Commissione Sanità erano venute in visita, a guardare con i loro occhi ciò che sono stati capaci di fare alcuni cosiddetti “servitori dello Stato”, approfittando del fatto che l’attenzione generale era tutta rivolta alla “terra dei fuochi”. A sentire la Tv, lo Stato è tutto concentrato sulla qualità dei broccoli, delle patate e non sugli esseri umani che, per effetto di un decreto prefettizio lucidamente meditato e addirittura ancora difeso da tanti amministratori locali, marciscono tra i liquami tossici di una gigantesca discarica abusiva. E tutta quella gente che era lì, davanti a noi, in divisa e macchine blu, cercava affannosamente di fare sparire le prove di quel crimine, provando a coprire i pozzi dei fumi di percolato con qualche calcinaccio messo alla buona o sistemando qualche cassonetto nuovo e pulito. Che pena…
Camminavo tra i cumuli che, nella fretta, le ruspe del Comune non erano riuscite a rimuovere, mentre i bambini e gli adulti del campo sbeffeggiavano i netturbini che occultavano quel disastro colposo. E in quel fetore senza tregua, due domande mi battevano nella testa: perché si è voluto tutto questo? (sarà strano ma ancora mi ripeto questo interrogativo, da 10 mesi ad oggi). E poi: cosa ci ha consentito di arrivare, noi persone semplici, ad essere ascoltati dai gradi più alti dei poteri della nostra Repubblica ed essere finalmente ringraziati dai nostri parlamentari, salutati come fratelli dai rom e infine citati come “degni di una pubblica onorificenza”, solo per avere gridato, indignati, la verità che usciva dagli sguardi di quei bambini martoriati che erano sotto gli occhi di tutti e nessuno voleva vedere?
Sono due domande impegnative a cui proverò a dare risposta, anche se questa vicenda è ancora a metà strada e non sappiamo come potrebbe finire; quindi niente toni trionfali, perché si tratta di una storia di vergogne nazionali e c’è poco da pontificare, ma c’è tanto da capire. Provo a ragionare.
Sui motivi che sono all’origine di una decisione tanto scellerata, che ha messo oltre 200 bambini a respirare sostanze tossiche, non credo che la mia idea sia molto diversa da quella del resto del nostro gruppo di lavoro: si è trattato di una decisione punitiva che serviva a tranquillizzare l’opinione pubblica locale che, terrorizzata dal danno irreparabile che Stato e Camorra hanno compiuto in trent’anni di scellerata alleanza e connivenza, aveva bisogno di un untore da perseguire e punire. Quando i magistrati rivelarono che l’avvelenamento sistematico di questa terra fertilissima era stato perseguito con lucidità da pezzi importanti delle nostre istituzioni, del mondo imprenditoriale e della criminalità organizzata, i cittadini di Giugliano si accorsero di colpo di essere stati per trent’anni la cloaca di mezza Italia, diciamolo con le parole giuste, e di avere tutti contro, un Paese complice. Fare giustizia non era facile, ma trovare un capo espiatorio, questo sì, era una decisione alla portata di abili agitatori. Allora, pur di calmare la piazza, si è proceduto con una giustizia sommaria, pilatesca, amministrata con la giusta dose di cinismo e di lucidità.
Si è individuata una terra ampia e silenziosa, apparentemente innocua, e la si è destinata a “campo nomadi”, per mettere fuori gioco gli untori, facendo finta che quelle colline che sorgono di lato al campo fossero dei tranquilli “monterozzi” di periferia e non quelle bombe ecologiche che ognuno ormai conosceva. Una scelta formidabile, per tempismo e ipocrisia, che ha messo a tacere la guerra civile che aveva seguito la denuncia dei “fuochi” e che ha consentito di spostare l’interesse dei media su altre questioni, allentando le tensioni di ordine pubblico. Sarò forse maligno, ma temo che più d’uno avrà pensato che a quella gente, povera e stracciona, stava bene quella destinazione che nemmeno i topi avrebbero mai voluto, perché così avrebbero espiato la colpa di aver dato fuoco alla monnezza. E poi si sa che i più deboli pagano per tutti, e i rom sono da sempre i più sfigati; prima servono a fare i lavori sporchi e poi, se li bastoni non reagiscono, se li maltratti non ti denunciano ….
E veniamo a noi. Come siamo riusciti a scomodare il Parlamento della Repubblica fino ad ascoltarci e immediatamente attivarsi a difesa di quel manipolo di donne e bambini che non ha neppure il diritto di cittadinanza e di voto? Chi riesce a fare cose di questo genere in Italia? I partiti? I sindaci? La televisione? Non mi sembra, sono tutti intenti a mantenere la loro fetta di potere e preferiscono tacere e pensare a scambiare figurine. E questo è l’aspetto che più mi fa rabbrividire. Viviamo un’epoca di profonde trasformazioni della rappresentanza, fino alla più generale crisi della democrazia italiana, da cui sembra che non ci sia via d’uscita, tanta è la stratificazione del marcio e del compromesso negli strati istituzionali e sociali. E allora da dove è nata questa energia che ci ha consentito di non tacere, ma soprattutto di organizzare un’azione così composta e ordinata da non lasciare spazio alle critiche? C’è davvero da sperare ancora che qualcosa possa cambiare? E’ forse che abbiamo azzeccato il metodo o è solo l’avere cavalcato lo scandalo del giorno che ci ha portato a palazzo Madama?
Qui credo che ci sia un po’ della nostra storia a dare risposte. Parlo come Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e ho il dovere di togliermi il cappello davanti alle decine di amici ed amiche delle bellissime associazioni che hanno svolto in maniera encomiabile, disinteressata e fraterna, il loro compito fino ad oggi. Senza di loro non ci sarebbe stata alcuna denuncia e nessuna partecipazione. Il gruppo di lavoro del Festival ha svolto una gara di solidarietà che non si è ancora fermata e di cui sono artefici uomini e donne che si conoscevano, ma non avevano mai lavorato insieme in questo modo.
Bene, io ritengo che, dietro questo modo singolare di agire tutti insieme, ci sia una delle possibili chiavi di lettura della resistenza politica di cui siamo attori; e questa è una considerazione di cui faremo bene a tenere conto da oggi in avanti.
Se la società civile si sta sostituendo sempre di più al ruolo dei partiti degli anni di fine secolo, è opportuno cercare nuove forme di lotta e di aggregazione, per capire come sfuggire alle lusinghe dei media e degli interessi più forti, come difendere noi stessi. Costruire alleanze e gruppi stabili può esporre al rischio delle sirene di Ulisse dei poteri economici e ai conflitti di interesse; e allora meglio rimanere in gruppi sciolti, pronti a mettersi insieme per un obiettivo di breve durata, ma senza perdersi di vista, pronti a ripartire e a fare un altro pezzo di strada insieme. “Guerriglieri” dei Diritti Umani? Forse sì.
Quando penso a questa strategia mi viene da ricordare che noi abbiamo coltivato con attenzione i rapporti con movimenti di resistenza civile come quelli dei NO TAV, a partire dal 2008, che hanno insegnato a tutti come si affronta, tematicamente e organizzativamente, uno scontro apparentemente disperato. Attraverso il loro esempio, abbiamo sostenuto la sperimentazione che alcuni sindaci coraggiosi hanno provato a intraprendere negli anni scorsi (Riace, Caulonia) in tema di immigrazione e accoglienza, mostrando come la speculazione dello Stato sul fenomeno migratorio era evidente a chi volesse approfondire l’analisi. Mi viene da dire, inoltre, che ci siamo fatti contaminare da un’esperienza straordinaria come quella delle Madres argentine, donne inermi che hanno cambiato il corso della storia senza colpi di fucile e hanno ridato una speranza alle nostre stanche democrazie, amministrando la giustizia senza linciaggi e scorciatoie, costruendo prove e processi con inoppugnabili riscontri. Per non parlare della parabola della “Garganta Poderosa” che difende, con un giornale fatto in casa, la vita dei ragazzi di strada portegni che tanto rassomigliano ai minori di Scampia e di Ponticelli, provando a sbarrare il passo a spacciatori e poliziotti corrotti. Lotte impari, affrontate a viso aperto, storie di gente che difende altra gente con la sola forza della propria unità, insomma le storie dei nostri film.
E mi piace ricordare che, In tutti questi casi, siamo andati a toccare di persona, con mano, viaggiando, discutendo e visitando, quei focolai di resistenza civile che abbiamo raccontato, stringendo le mani a decine di uomini e donne in carne e ossa che hanno popolato i nostri sogni per anni. E ogni volta portandoci dietro, da Napoli, decine di altri occhi e cuori assetati di curiosità e di storie di speranza, amici ed amiche che hanno seminato queste speranze e questi esempi anche nella nostra realtà.
Se è vero che le buone pratiche non sono esportabili, lasciatemi dire che almeno la speranza può essere trasmessa con un racconto, a volte con un film, spesso con un filo di voce, e forse questo è quello che è successo a noi. Abbiamo seminato e raccolto, tutti insieme, una nuova coscienza civica.
Penso, quindi, che la marcia in più che ci ha fatto volare e superare le anguste strettoie del territorio campano, a cui pure siamo affettivamente legati, è stato l’avere introiettato l’esempio di questi movimenti di respiro internazionale, nient’affatto violenti, che hanno vissuto lunghe stagioni di criminalizzazione e di attacco, ma oggi sono tra le poche voci oneste che volgiamo ascoltare.
Grazie a tutta questa meravigliosa umanità, di cui siamo stati amici e confidenti anche per una sola sera, ci siamo portati a casa una lezione di vita che ci ha fatto riconoscere il crimine nascosto di Masseria del Pozzo e ci ha indicato la strada giusta, quella della legalità e della democrazia, con cui perseguire i nostri obiettivi. Non credo di sbagliarmi se in questa nostra coesione, consapevolmente scelta, e in questa determinazione ostinata a restare insieme, sta il catalizzatore che ha moltiplicato le preziose competenze della nostra rete e che ci ha dato un’identità collettiva, forte e credibile, davanti alla quale anche le Istituzioni hanno dovuto porsi in ascolto. Teniamolo a mente per i prossimi giorni.
E ora torniamo sotto coperta e prepariamoci alla seconda parte della navigazione. Con fiducia rinnovata.