Il Soffio delle Fate
“Il soffio delle fate” è il titolo dell’opera lirica classica contemporanea di Filippo Zigante su libretto tratto dall’omonimo romanzo di Angelo Cannavacciuolo (pubblicato da Baldini & Castoldi nel 2002), portata sulle scene in prima assoluta – in co-produzione con il tedesco Vorpommern Theater di Stralsund – in Repubblica Ceca, presso il National Moravian-Silesian Theatre di Ostrava nel 2009, e data, in prima assoluta italiana, a Napoli, presso lo storico Cinema Teatro Filangieri, sotto forma di film della prima, su iniziativa di ANLAIDS, lo scorso 29 gennaio.
Un’occasione preziosa per tanti motivi: la prossimità con la giornata della memoria, del 27 gennaio, che ci richiama al dovere di tenere attiva la memoria delle guerre, passate e recenti, sul suolo europeo e di operare attivamente per la promozione della pace e l’educazione alla pace; l’occasione simbolica del 2014, centenario della Grande Guerra e uno dei ventennali della Guerra di Bosnia, qui liricamente e drammaticamente ri-evocata; la circostanza della première proprio a Napoli, città simbolo di un Mediterraneo di culture e contaminazioni. Non a caso, il tema e il contenuto dell’opera-film lanciano tante sollecitazioni anche al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, tanto più alla vigilia (24-28 Marzo 2014) della prima edizione della sua “School Edition”, che sarà dedicata ai temi delle differenze e delle contaminazioni.
“Il soffio delle fate”, pur avendo come sfondo la guerra in Bosnia e pur essendo, dall’inizio alla fine, anche un clamoroso e potente atto d’accusa contro la guerra (“…non esistono i crimini di guerra, il crimine è la guerra”), ha come protagonista, prima ancora dei personaggi che animano la scena, soprattutto Sarajevo: il cimitero dei martiri di Kovaci, che fa da sfondo costante della dinamica scenica; l’Orchestra Filarmonica di Sarajevo, che rimase in vita durante tutto il periodo della guerra, per segnalare la continuità della vita e per “consolare le persone” in quei giorni cupi; un insieme di immagini per le quali la città di Sarajevo in guerra è passata alla storia, dalla violenza delle milizie ai colpi dei cecchini, dagli stupri etnici ai bambini vittima, fino al continuo confondersi di tute militari ed abiti civili, che rendono incerti i confini tra “buoni” e “cattivi”, “vittime” e “carnefici”, a meno di non segnarli nettamente, per presunzione ideologica o per partito preso. Non a caso, al di là delle intenzioni degli autori, anche un altro aspetto della città di Sarajevo inter-viene a fare di questa città la “protagonista assoluta” dell’opera: la nebbia di Sarajevo, appunto, il “soffio delle fate”.
Sarajevo è, al tempo stesso, profondamente bosniaca e assolutamente balcanica: miti e leggende che popolano di fiabe i racconti ancestrali nei Balcani ritornano vigorosamente, siano le fate della Neretva, sia appunto il soffio delle fate che racchiude, come in un bozzolo, la città. Questo soffio è sempre, presente o evocato, sulla scena: avvolge e protegge la città martoriata, rende indistinti i volti e, talvolta, le azioni, protegge nella sua penombra le persone, consentendo loro, talvolta, di sfuggire ai colpi dei cecchini appostati sui tetti dei palazzi, eccita gli occhi della fantasia, alterando i contorni del reale, evocando scene magiche e suggestive, portando a ri-evocare una immagine serena e spensierata, l’immagine della propria giovinezza, rotta tra gli anni Ottanta di una Jugoslavia ancora serena e aperta al mondo, e gli anni Novanta della sua immane e rovinosa devastazione. Anche per questo motivo l’opera è impegnativa: almeno sei voci di primo piano presenti sulla scena e uno spaccato semantico molto complesso che la musica si incarica di rappresentare.
I protagonisti del “soffio delle fate” sono tre fratelli, Becir, un musicista dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo, Tom, un cameraman chiamato a riprendere le scene della guerra, e Jovan, un comandante dell’esercito serbo, sbrigativamente etichettato come cetnico. Dei tre, Tom rappresenta un tratto tipico di questa guerra (di tutte le guerre), lo spaesamento: fuggito dalla Bosnia in tenera età al seguito della madre e tornatovi come giornalista per un reportage di guerra, scopre il suo passato attraverso un percorso, personale e familiare, difficile e tormentato, fatto di memoria e di dolore, un altro binomio-chiave di quest’opera. È lui, paradossalmente, l’elemento di connessione tra i tre, divisi dalla guerra e che proprio nel pieno della guerra, sorprendentemente e tragicamente, finiscono per re-incontrarsi, fino al tragico epilogo.
Nell’opera trovano spazio non poche occasioni sceniche: la preghiera ai defunti del cimitero di Kovaci; l’attacco a colpi di granate presso il cimitero che ferisce irreparabilmente una bambina; la vicenda degli orchestrali di Sarajevo che, senza abbandonare la città, non abbandonano la propria missione, di unire le persone attraverso la musica e, nella orchestra, la storia d’amore, drammatica e struggente, di Becir e Minja, entrambi componenti della Filarmonica, che sarà nuovamente ripresa alla fine dell’opera; le scene corali del soffio e l’evocazione delle fate, l’irruzione dei miliziani sulla scena, che viene annunciata a colpi di granata, ma si realizza nello spazio, intimo e distorto, della relazione, quella più profondamente alterata dalla violenza della guerra, sia il rapimento di una giovane costretta a prostituirsi per il piacere dei miliziani, sia l’incontro a due e a tre, di Jovan con Becir e dei due con Tom, che avvia il pubblico verso la fine dell’opera. Il tutto, per un’articolazione eclettica di forme e di stili musicali, dal corale all’aria solistica, dalle scene d’insieme ai duetti e terzetti, dall’aria “tradizionale” fino ad escursioni nella polifonia o nello swing in veste sinfonica, nell’arco dei due atti e cinque scene che ne compongono l’architettura, per meno di un’ora e mezza di svolgimento.
Come ha ricordato in un’intervista l’autore, Filippo Zigante, allievo dei maestri Franco Ferrara e Virgilio Mortari, violinista e direttore d’orchestra, da sempre impegnato nella composizione operistica, sinfonica e cameristica, per la quale ha conseguito anche il primo premio al Concorso Nazionale di Composizione “F. M. Napolitano” nel 1971 con il suo quartetto d’archi: “il progetto nasce dalla convinzione che l’arte sia portatrice di un messaggio morale in rapporto alla realtà presente, e non ad avvenimenti storici superati”. “A favorire un maggiore contatto tra l’opera e il pubblico, le scelte linguistiche basate sull’uso consapevole delle possibilità espressive, che adeguano il linguaggio alle esigenze della narrazione, in libertà da ogni schema precostituito, facilitando la comunicazione di forme e linguaggi musicali attuali”.