I Balcani tra memoria e lavoro di pace, un impegno per il 2014
Il modo come la “nozione” di Europa precipita sui Balcani Occidentali e sull’atteggiamento che adottiamo nel relazionarci ad essi è pieno di inciampi ed incongruenze, di pregiudizi ed ozi del pensiero.
Pensiamo solo ad alcuni tra i più abusati luoghi comuni: da quando la nozione di Europa ha cominciato a diventare “patrimonio comune” (o, per lo meno, designazione di un patrimonio comune o di una coscienza condivisa) dei popoli d’Europa, a fare data almeno dalla caduta di Costantinopoli (1453), i Balcani, in quanto macro-area geo-politica, sono stati, di volta in volta, la “porta d’Oriente” e l’“estremo baluardo della Cristianità”, “confine” e “minaccia”, “periferia” slava e “altro dal” cuore della civiltà e della cristianità che invece si andava esprimendo, specie nella stagione dei grandi imperi, nell’Europa Occidentale.
Il percorso istruito dall’Unione Europea per predisporre l’adesione dei singoli Paesi dei Balcani alle istituzioni euro-comunitarie è perfino imbarazzante.
Giusto per fermarsi alla superficie del fenomeno, sembra il marchingegno impazzito d’un apprendista stregone che, incapace di coordinare un processo, impone soluzioni differenziate ad adesioni capricciose, ora della Slovenia, quindi della Croazia, forse della Serbia, mentre già si manifesta disponibilità ad un Kosovo non ancora riconosciuto come Stato dalla Comunità Internazionale e dalla Unione Europea stessa (!), certamente il Montenegro, in prospettiva la Macedonia, forse l’Albania, e chissà quando toccherà alla Turchia. Andando in profondità, non si può far a meno di notare come questa modalità di relazione tradisca un profondo euro-centrismo e, in definitiva, il solito atteggiamento imperialista dell’Europa.
Robert Kaplan, nel suo Balkan Ghosts, scrive: «Solo l’imperialismo occidentale – anche se a pochi piacerà chiamarlo così – può unire il continente europeo e salvare i Balcani dal caos». Michael Ignatieff imputava all’assenza dell’arbitro imperiale europeo la ragione dei conflitti nei Balcani, imperversati, evidentemente, da stirpi ferine che «non frenate da mani più forti, si sono aggredite l’un l’altra per la resa dei conti finale a lungo rimandata per la presenza dell’impero». Per non parlare dell’editorialista del Guardian, Julian Borger, il quale, dalle colonne del giornale, riteneva «necessaria allo sviluppo democratico in Bosnia l’esistenza di un regime coloniale benevolo». Non a caso, Étienne Balibar vedeva, già nel 1999, due alternative: «Da un lato, vedere nella situazione balcanica non una serpe in seno, «strascico» patologico del sotto-sviluppo, ma piuttosto un’immagine della sua storia e prendere a confrontarvisi mettendosi in gioco. Solo allora l’Europa ricomincerà a essere possibile. Dall’altro, rifiutare di affrontare e continuare a vedere il problema come un ostacolo esterno da superare con mezzi esterni, neo-colonizzazione inclusa».
La “prova del nove” è più a portata di mano di quanto si pensi. Guardiamo ai processi neo-coloniali oggi in corso nei Balcani: le modalità di articolazione dell’adesione serba all’Unione Europea, le continue pressioni e gli espliciti ricatti in merito al riconoscimento del Kosovo, la transizione istituzionale in Bosnia, le continue incertezze e le costanti irresolutezze nei confronti della Albania e della Macedonia, e la presenza internazionale in Kosovo. Quest’ultimo è, di fatto, un protettorato politico-militare euro-atlantico: ospita la più grande base militare nord-americana dell’Europa centro-orientale, privatizza tutto il privatizzabile ad uso e consumo delle potenti cordate statunitensi (talvolta esplicitamente legate a vecchi esponenti dell’amministrazione, da Dick Cheney a Wesley Clark a Madeleine Albright, come si vede senza distinzione di colore e di interessi tra democratici e repubblicani), viene già considerato alla stregua di Stato in alcuni programmi euro-comunitari, inducendo di fatto le organizzazioni euro-comunitarie a creare le condizioni del suo riconoscimento formale prima e a prescindere dagli esiti del dialogo in corso tra Belgrado e Pristina e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. Insomma, sarà impossibile rendere i Balcani più “accessibili” al nostro immaginario se li si continua a trattare alla stregua di colonie e altrettanto impossibile rendere l’UE più “democratica” se continuerà a sfruttare il retaggio coloniale per i propri interessi.
Sono questi alcuni dei motivi di fondo che hanno portato all’ideazione e alla realizzazione della, bella e partecipata, giornata internazionale, dedicata al nesso tra Balcani e democrazia, lavoro di pace e cooperazione internazionale, nell’ambito della sesta edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani, Napoli, la quale, dedicata a “I Balcani a Crocevia: tra Europa e Conflitti”, ha inteso fare il punto della situazione e interrogare responsabilità ed iniziativa di attivisti/e ed intellettuali nel contesto balcanico, nella intersezione tra la vigilia del 2014, uno degli anniversari del “lungo ventennale” della Guerra di Bosnia e centenario della prima guerra mondiale, di cui si terrà, con il “Sarajevo 2014”, una celebrazione tra le più controverse e problematiche degli ultimi anni, e la fine del 2013, che ha visto il rilancio dell’iniziativa per l’integrazione europea e celebrato la stipula dei primi accordi di dialogo dopo la Guerra del Kosovo. Alle prese con una guerra, “paradigmatica” e “costituente” insieme, la giornata, come il Festival nel suo complesso, non è venuta meno alla promessa, di attivare un confronto aperto e partecipato, di sollecitare punti interrogativi esigenti e stimolanti, di esplorare vie, anche inedite, per il lavoro di pace e la promozione dei diritti umani.
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