Carcere di Ezeiza
A Pozzuoli, nella “Casa Circondariale Femmile”, il mattino del 9 agosto 2013, molto probabilmente, si sarà affacciato con l’alito caldo e afoso del nostro agosto. A tredicimila chilometri di distanza, lo stesso mattino, nel carcere femminile di Ezeiza all’estremità di Buenos Aires, ha invece il tratto freddo e pungente dell’inverno australe. Ci arriviamo in un’auto messa a disposizione dal festival dei diritti umani di Baires, con un equipaggio strano che conta: un autista peruviano, una giovanissima attrice colombiana con un nome russo, un giovane brasiliano tecnico del suono e due napoletani. Il carcere è immerso in una zona verdissima e isolata; intorno prati e alberi a perdita d’occhio e se non fosse per quelle orribili reti di recinzione tutt’intorno, nell’aria spazzata dal vento che costringe a chiudere le lampo dei giubbotti, verrebbe da dire che è proprio un bel posto. Le guardie sono gentili, sono in possesso dei nomi della delegazione che animerà la giornata del Festival. Hanno divise grigio/azzurre, ritirano i passaporti e ci indicano un sentiero interno che dalla accettazione ci conduce ad un edificio che scopriremo essere il Centro Culturale. Un piccolo auditorium attrezzato per proiezioni e rappresentazioni teatrali dove l’odore del carcere sembra non arrivare. Il programma prevede l’incontro con un gruppo di detenute che hanno svolto attività laboratoriali con il Festival ed io e Sabrina ci sentiamo come degli strani postini, venuti qui a recapitare a donne recluse all’altro capo del mondo una strana cartolina colorata da altre donne detenute. Mentre i tecnici si assicurano che luci, audio e tutto il resto funzioni arrivano le ospiti di Ezeiza e c’è tempo per scambiare un po’ d’impressioni in un simpatico esperanto fatto di gesti e di un italo spagnolo poco fluido, ma comprensibile. Tra loro si distingue una scugnizza biondina in completo di jeans; si chiama Stefania, Hard Castle di soprannome. E’ innamorata dell’Italia ed ha chiamato suo figlio Valentino, quando ne parla l’aria spavalda lascia il posto alla tenerezza tipica di una madre lontana dal suo bambino. A me tocca introdurre, spiego molto sinteticamente i dati della detenzione in Italia, la presidente del Festival di Baires mi fa da traduttrice, m’invento la metafora della cartolina per speigare loro il senso della nostra presenza lì. Dico del nostro Festival dei Diritti Umani di Napoli e del gemellaggio con quello argentino che dura da cinque anni. Parlo di questo strano laboratorio sulla “gioia” fatto dalle detenute di Pozzuoli e lascio che Sabrina spieghi da donna a donne il senso del vostro lavoro. Tutte ascoltano con grande attenzione e mentre parte la selezione di immagini che Sabrina ha scelto abbiamo la sensazione che un po’ di gioia, forse, prenderà forma anche in questo angolo pacificato di carcere. Gli applausi iniziano a scrosciare mentre sui titoli di coda risuonano ancora le note di allegria gitana di Django Reinhardt. Aveva senso portare un pezzo di “Edonè” fin qui. A luci accese, le argentine si alzano, sorridono. Molte ci abbracciano e ringrazino, sono contente. Poi, la più anziana tra loro, si avvicina a Sabrina e chiede: possiamo scrivere alle amiche di Napoli? Ecco, in quella domanda ci è sembrato fosse nascosta la risposta del nostro e del vostro viaggio.
Giovanni Carbone