La libertà è partecipazione

Non sono mai stato in carcere, per fortuna. Non ho mai visitato un carcere, purtroppo.
Il carcere di Moron è l’ennesima sfida che devo affrontare contro me stesso durante la mia settimana in Argentina. Fino ad ora i penitenziari li ho visti solo dall’esterno o in televisione, e non avendo il dono della vista a infrarossi e sostenendo che la televisione raramente trasmette realtà, non ho assolutamente idea di cosa troverò una volta entrato. I 3 cancelli che mi separano dall’ingresso mi mettono ansia.
Sono qui in compagnia della delegazione Napoletana e trasmetteremo per i detenuti di Moron il film “I giorni buoni” di Andrea Barzini, storia di speranza ambientata all’interno della Comunità Jonathan di Scisciano, paese nel napoletano, gestita da Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi, due voci fuori dal coro che cercano di “riportare alla vita” ragazzi di 16-18 anni che si sono persi nello spaccio della droga o nelle rapine, gestite dai clan della camorra, con l’abbaglio di una vita “facile” e basata sul denaro.
Andrea, Vincenzo e Silvia sono in gruppo con me, ma mi sembrano più tranquilli di me.
Incontro il direttore del carcere e ascolto i suoi consigli, non mi allontanerò dal gruppo. Mi spoglio di documenti, soldi e macchina fotografica. Ora sono pronto per entrare. Forse.
Entrano le donne e una volta che loro hanno varcato la prima soglia tocca anche a me. Le guardie che incontriamo sembrano provate e non regalano ne sorrisi ne saluti.
Resta da varcare l’ultimo cancello prima di entrare nell’atrio dove avverrà la proiezione e il mio nervosismo cresce.
Mi rendo conto che ho sempre associato il carcere a sbarre, fili spinati e “cessi” improponibili ma il carcere non è nient’altro che un complesso edilizio in cui vengono rinchiuse le persone condannate a pene detentive. Ecco fra poco sarò in mezzo a persone.
Entro ed in gruppo passiamo tra due file composte da ragazzi che sembra ci osservino curiosi. Andiamo a sederci nelle prime file davanti.
Entra la bandiera Argentina e parte l’inno, i detenuti, non tutti a dire la verità, si alzano e cantano. Non sono un amante degli inni e delle bandiere ma comunque il momento è emozionante.
Parte il film e sullo schermo ruotano i protagonisti del film, detenuti che scontano la pena all’interno della comunità Jonathan, attraverso le loro storie, portano la testimonianza che cambiare è possibile. Si susseguono immagini forti e momenti commoventi. Mi volto per osservare il livello di concentrazione tra i detenuti: è alto, molto alto, sono pochi quelli distratti. Piace molto anche a me il film e trovo assurdo come alcuni giovani possano “buttare” la propria vita in droghe e malaffari per una felicità fittizia, trovo emozionanti le lettere che gli ex ospiti di Jonathan inviano nei mesi successivi la loro permanenza nella comunità, trovo triste la morte di uno di loro ma soprattutto trovo assolutamente stupendo che Silvia e Vincenzo attraverso il proprio lavoro e con l’appoggio di una grande azienda italiana diano ai ragazzi la possibilità di imparare un mestiere e di poter continuare a fare questo dopo aver scontato la pena.
Il film finisce tra gli applausi dei numerosi detenuti ed è forte la sensazione che all’interno della sala ci sia grande emozione, i ragazzi hanno gli occhi lucidi e non credo che nessun cinema o teatro avrebbe potuto rappresentare luogo più adatto per la proiezione de “I giorni buoni”.
Mi emoziono anche io e anche chi è vicino a me ha qualche lacrima pronta ad uscire.
Inizia il dibattito tra un po’ di confusione e, proprio mentre mi sistemo, Maurizio mi chiama in disparte. Insieme andiamo in una stanza e li faccio l’incontro più bello e forte della mia esperienza in Argentina.

Giorgio Gaber in una sua nota canzone cita:

“La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.”

6 ragazzi della mia età, stanno scontando pene differenti, lunghe e uno di loro è dentro per la seconda volta, ma hanno deciso di essere liberi: partecipano.
Hanno creato all’interno del carcere un laboratorio di scrittura braille, un sistema di scrittura e lettura a rilievo per ciechi ed ipovedenti, e il loro unico scopo è che più non vedenti possibili abbiano l’opportunità di ricevere testi. Non gli interessa il profitto e non gli interessa avere il monopolio, il loro unico intento è rendersi utili per una giusta causa. Hanno un sogno ed un progetto da attuare: una volta fuori vogliono aprire una associazione per continuare ciò che hanno iniziato in carcere e cioè produrre e diffondere i libri in braille ai non vedenti del loro territorio. Fare fuori quello che hanno imparato dentro. Quasi se la lezione relativa alla riabilitazione al lavoro vista nel film di Silvia e Vincenzo avesse avuto effetti immediati.
Ci soffermiamo abbastanza su questo punto ed è evidente come la loro paura più grande è quella di tornare in strada senza una speranza e senza un punto di riferimento. La società argentina, come evidentemente anche quella italiana, sembra voler emarginare tutti coloro che escono dal carcere, come se sbagliare e finire dentro equivalga a suicidarsi socialmente. La loro paura è che la vita al di fuori dal penitenziario non abbia niente da offrirgli, loro però hanno trovato la soluzione, se ne fregheranno di quella società così benpensante e inizieranno una nuova vita con le loro forze e inseguendo il loro sogno.
Gaber ha ragione: la libertà non è nient’altro che partecipazione.

Vedo nei loro occhi una grande voglia di vivere e di sentirsi utili e tutto ciò mi emoziona e credo abbia emozionato anche Maurizio. Ora tocca a me parlare e spinto dalla loro carica gli riferisco che abbiamo qualcosa che ci unisce ed in parte il loro obiettivo è anche quello mio, di Americo, di Gianluca e di Marco che siamo partiti come delegazione abruzzese per trovare contatti e per creare rapporti per iniziare una relazione forte con il mondo delle disabilità e in particolare della cecità in Argentina e che proprio in questo momento il resto della delegazione sta incontrando il direttore dell’istituto dei ciechi di Buenos Aires. Gli propongo una collaborazione e mi impegno a supportare il loro progetto. Loro accolgono l’idea con occhi
pieni di speranze e per me questa è un’ulteriore spinta ad andare avanti. Ultimi dettagli sui contatti e prima di stringerci le mani a mò di contratto, ribadiamo ancora una volta tutti insieme che lavoreremo insieme per un obiettivo comune. Un ultimo sguardo con loro e una pacca sulle spalle, poi usciamo.
Con Maurizio incontriamo il professore del laboratorio ed ancora provati ribadiamo anche a lui il nostro impegno.
Ormai sono fuori e la mia adrenalinica voglia di raccontare agli amici del gruppo i particolari dell’incontro nel laboratorio viene interrotta dall’ultimo incontro del giorno: 3 ragazzi da dietro le sbarre, forse di un bagno o forse di una cella, ci salutano e ci ringraziano per avergli concesso un giorno speciale, per avergli mostrato che al di sopra di tutto esiste sempre una speranza per poter ricominciare. Ci chiedono un recapito telefonico per venire in Italia. Sarebbe bello.
E’ arrivata l’ora di uscire.
Sul bus di ritorno verso l’hotel c’è un atmosfera particolare, io accendo l’mp3 e metto le cuffie.
Metabolizzo.
Rifletto e fisso il vuoto fuori dal finestrino.
Mi domando come sarebbe la mia vita all’interno di un carcere, mi domando perché quei ragazzi sono lì dentro.
“Speranza” è la parola che scorre di più dentro la mia mente, tutti lì dentro sperano e credo che anche qualcuno su questo pulmino ora stia sperando come e con loro.
Mi scorrono davanti gli occhi le scene del film, i volti dei detenuti e la vita dei ragazzi del laboratorio e poi ancora quelle mani che uscivano dalle sbarre. Mi scorrono davanti tutte queste cose e cresce la mia voglia di vivere e di combattere per i diritti umani.
Bene ora so come è fatto un carcere, ora so che dentro i penitenziari ci sono ragazzi, ragazzi che hanno sbagliato e che alcuni di loro continueranno a farlo, ora so soprattutto però che dentro il carcere c’è vita perché in qualsiasi luogo dove c’è emozione significa che c’è un anima e se c‘è l’anima c’è la vita, e molto spesso l’anima è libera.

Non vale la pena avere la libertà
se questo non implica avere la libertà di sbagliare.

Gandhi

Mirko Cipollone, Festival del Cinema dei Diritti Umani e Handicap di Avezzano (AQ)